Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia dei Monti Cimini

310 a.C.

Il console

Quinto Fàbio Màssimo Rulliano (lat. Q. Fabius Maximus Rullianus)

Uomo politico e generale dell'età delle guerre sannitiche. Figlio di M. Fabio Ambusto, nel 325 magister equitum del dittatore Lucio Papirio Cursore, contro gli ordini di questo avrebbe attaccato battaglia e vinto i Sanniti, per cui sarebbe stato condannato a morte e poi perdonato. Nel 322 fu console e trionfò sui Sanniti; dittatore nel 315, fu vinto dai Sanniti al passo di Lautule presso Terracina; console ancora nel 310, sconfisse gli Etruschi presso Perugia; console nel 308, avrebbe combattuto in Etruria, nel Sannio e in Campania; censore nel 304, avrebbe limitato la riforma con cui Appio Claudio Cieco aveva iscritto in tutte le tribù i cittadini senza proprietà fondiaria; fu ancora console nel 297 e nel 295, anno in cui vinse, presso Sentino, Sanniti, Galli ed Etruschi.

La genesi

Mentre nel Sannio Bubulco trionfava, ormai tutti i popoli dell'Etruria - fatta eccezione per gli abitanti di Arezzo - erano corsi alle armi, scatenando, con l'assedio di Sutri, città alleata dei Romani e sorta di ingresso dell'Etruria, una guerra di grosse proporzioni. Il console Emilio con un esercito si mosse in quella direzione per liberare gli alleati dall'assedio. All'arrivo dei Romani, gli abitanti di Sutri portarono una grande quantità di vettovaglie nell'accampamento davanti alla città. Gli Etruschi spesero il primo giorno discutendo se accelerare o tirare in lungo la guerra. All'alba del giorno successivo, visto che i comandanti avevano deciso di optare per la soluzione più rapida anziché per la più sicura, diedero il segnale di battaglia e, armatisi, scesero in campo. Informato, il console fece immediatamente diffondere tra gli uomini l'ordine di mangiare, e di armarsi subito dopo essersi rimessi in forze. Una volta eseguiti gli ordini, il console, non appena li vide pronti e con le armi in pugno, fece uscire l'esercito fuori dalla trincea e lo schierò in ordine di battaglia non lontano dai nemici. Per qualche tempo entrambe le parti si studiarono, nell'attesa che l'avversario alzasse per primo il grido di guerra e desse inizio alla battaglia. Ma mezzogiorno passò senza che da una parte e dall'altra venisse lanciata una sola freccia. Poi gli Etruschi, per non doversi ritirare senza risultato, levarono il grido di battaglia e si lanciarono all'assalto al suono delle trombe. Ma anche i Romani si gettarono nella mischia con non minore determinazione. Si scontrarono con estrema animosità: se i nemici erano numericamente superiori, i Romani sopravanzavano per coraggio, e l'incertezza dello scontro fece molte vittime da entrambe le parti; caddero tutti i più forti in campo. La situazione rimase in bilico finché la seconda linea romana non diede il cambio alla prima, con gli uomini freschi al posto di quelli ormai provati. Gli Etruschi, poiché non avevano a disposizione riservisti freschi a supporto della prima linea, caddero in massa davanti e intorno alle loro insegne. In nessun'altra battaglia la strage sarebbe stata più impressionante e più esiguo il numero dei fuggiaschi, se il buio non avesse protetto gli Etruschi, la cui ostinazione a combattere era tanta che i vincitori abbandonarono la battaglia prima dei vinti. Dopo il tramonto venne dato il segnale della ritirata, e nella notte i due eserciti fecero rientro ai rispettivi accampamenti. Nella parte residua dell'anno, presso Sutri non accadde nulla che fosse degno di essere ricordato, perché l'intera prima linea dell'armata nemica era stata distrutta in quell'unica battaglia, e agli Etruschi rimanevano solo i riservisti, appena sufficienti per difendere l'accampamento. Ma anche da parte romana i feriti furono molti, al punto che i morti a seguito di ferite contratte furono più numerosi dei caduti in battaglia. Quinto Fabio, console l'anno successivo, assunse il comando delle operazioni sotto Sutri. Suo collega fu Gaio Marcio Rutilo. Fabio portò anche rinforzi da Roma, mentre per gli Etruschi arrivò un nuovo esercito dalle loro terre.

La battaglia

Sutri era stretta d'assedio dagli Etruschi, e il console Fabio, che stava guidando l'esercito lungo le pendici dei monti Cimini per portare aiuto agli alleati e attaccare i dispositivi di difesa dei nemici, se avesse trovato qualche passaggio praticabile, si imbatté nell'esercito etrusco schierato in ordine di battaglia. L'ampia pianura sottostante gli permetteva di constatare che le forze del nemico erano cospicue, e cercando di sopperire all'inferiorità numerica dei suoi con la posizione occupata, fece loro deviare leggermente la marcia, in modo tale da farli risalire lungo il declivio (che era scosceso e coperto di massi); quindi rivolse il fronte contro il nemico. E gli Etruschi, non pensando ad altro che alla loro superiorità numerica, nella quale avevano una cieca fiducia, si buttarono nella mischia con una foga e una impazienza tali che, per arrivare il più in fretta possibile al corpo a corpo, gettarono a terra le aste e avanzarono contro gli avversari con le spade sguainate. I Romani, invece, non smettevano di scagliare verso il basso tanto i loro giavellotti quanto i sassi, arma questa offerta in abbondanza dal luogo. Pertanto per gli Etruschi non era facile arrivare al corpo a corpo perché, anche quando non venivano feriti, rimanevano storditi dai colpi che piovevano sugli elmi e sugli scudi, e non avevano armi da lancio con le quali affrontare il combattimento a distanza. E mentre restavano fermi, esposti ai colpi, senza che ormai nulla li potesse più proteggere, e alcuni cominciavano a ritornare sui propri passi, gli hastati e i principes, levando di nuovo il grido di battaglia, si lanciarono con le spade in pugno contro quella massa instabile e ondeggiante. Gli Etruschi non ressero l'urto, e voltate le spalle fuggirono disordinatamente in direzione dell'accampamento.

Le conseguenze

I cavalieri romani attraversarono la pianura in diagonale, andando a sbarrare la strada ai fuggitivi, che, rinunciando a raggiungere l'accampamento, ripiegarono verso i monti. Di lì, quasi disarmati e ridotti a mal partito dalle ferite, si rifugiarono nella selva Ciminia. I Romani, dopo aver massacrato parecchie migliaia di Etruschi e aver loro sottratto trentotto insegne militari, si impadronirono anche dell'accampamento nemico, raccogliendovi un grosso bottino. Fu allora che si iniziò a pensare al modo di dare la caccia al nemico.



Bibliografia:
"Ab Urbe Condita", Tito Livio, Libro IX